ENGAGEMENT AZIENDALE: SOLO IL 4% DEI DIPENDENTI IN ITALIA È SODDISFATTO

ENGAGEMENT

L’occupazione sale ma l’engagement dei lavoratori no

L’estate ci ha confermato un trend: l’occupazione nostrana continua la sua cavalcata positiva, l’engagement dei lavoratori purtroppo no. Non accenna a placarsi infatti, con numeri mai visti prima, – ed è l’altra faccia della medaglia – il fenomeno delle dimissioni volontarie che accentua il deciso dinamismo del mercato del lavoro.

Engagement basso: la conseguenza sono le dimissioni volontarie

Il mercato, insomma, richiede professionalità e ottiene risposta anche da chi un lavoro ce l’ha già ma prende il coraggio a due mani, fa un’onesta analisi sulla sua soddisfazione e decide – in molti casi – di abbandonare la strada nota per portare un contributo più significativo altrove.

Ma quindi cosa c’entra l’engagement?

D’altra parte, da rilevazioni recentissime, uscite in agosto, solo il 4% dei lavoratori dipendenti in Italia si definisce “engaged”, cioè coinvolto nelle dinamiche della propria azienda e dunque spronato a essere creativo, contributivo, finendo spesso nel ricadere in quello che abbiamo imparato a conoscere come il quiet quitting.

Tutta la “vecchia Europa” si trova nei gradini più bassi della classifica della motivazione e della soddisfazione (non fanno molto meglio di noi Germania, Francia e Spagna ad esempio), ma l’Italia ottiene il risultato più basso in UE.

E non è solo una questione economica, che certamente incide considerando l’aumento generalizzato dei prezzi e gli effetti dell’inflazione, è primariamente un tema di coinvolgimento. La fatica principale è quella di essere chiamati a fare il proprio “pezzettino” senza conoscere gli orizzonti complessi di ciò che ci viene chiesto, di essere limitati a portare a termine in maniera acritica un compito. L’engagement cambia tutto perché fa percepire lo scopo di ciò che si fa e ciò innesca un desiderio positivo di contribuire portando proposte, sperimentando, tentando strade nuove che potrebbero riuscire a ottimizzare o migliorare processi e prodotti per una maggior soddisfazione.

E se il quiet quitting riguarda anche i giovani, la lettura di questo fenomeno non può essere risolta con la scarsa “voglia di lavorare” quanto piuttosto con la sana aspirazione al senso, con il desiderio di compimento anche sul lavoro.

Valori in cui riconoscersi

È un modo di concepire il fare in maniera più complessa e profonda, dove non vale solo la quantità, la risposta al task, ma conta – lato azienda e lato lavoratore – la corrispondenza di valori, la creazione del network, la comune aspirazione alla crescita. Altrimenti il rischio, come denunciano gli studi più recenti, è uno stress sterile davanti al quale si scappa.

I numeri e le statistiche fanno notizia, ma la vera svolta sta nella lettura di ciò che ci raccontano: siamo in piena emergenza demografica e necessitiamo di professionalità (giovani e senior) di alto profilo, animate dal desiderio di portare un proprio contributo originale e imparare sempre. La crescita, soprattutto in un’ottica di transizione digitale e verde, necessita di una guida che non può essere che l’intelligenza e la sensibilità umana. C’è, dunque, un’urgenza di senso, da affrontare costruendo – a livello Paese e come Sistema Lavoro – una prospettiva di valore.

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