Proviamo a sgombrare subito il campo da incomprensioni su cosa voglia dire concretamente intendere sé stessi come un brand da spendere.
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Non esageriamo. Un esperto nel nostro campo si renderà conto in breve tempo se abbiamo “gonfiato” determinate skills. E certo non ci faremo una bella figura, anzi avremo distrutto in una sola mossa tutto ciò che di buono avevamo seminato in passato.
Questo è una leggerezza tipica dei giovani alle prese con i primi curriculum vitae, e che gli HR conoscono fin troppo bene.
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Non vendiamoci. La questione nodale del Personal Branding è il coltivare nel tempo la propria reputazione. Giorno dopo giorno. Non dobbiamo “piazzarci”. Dobbiamo dimostrare il nostro valore e la nostra unicità per far sì che sia l’occasione giusta a venirci a cercare.
Ci vuole impegno ed energia, ma è un lavoro estremamente interessante, che generalmente porta ad incrementare la rete di chi ci conosce e stima ciò che facciamo. È questo il valore aggiunto di puntare non tanto sul nostro job title o sull’importanza della società per la quale lavoriamo. Parliamo di noi, dei nostri valori, del nostro modo di intendere un compito da portare a termine, delle skills che ci permettono di affrontare determinati passi.
E attenzione, non avremo esaurito il compito aprendo il nostro blog e postando ogni tanto. Un autentico Personal Branding parte molto prima e, per certi versi, arriva oltre.
Possiamo costruirlo online come offline, anzi, va costruito su entrambi i fronti. Internet e in particolare i social media oggi possono essere considerati il doping del PB. Perché ciò che prima i partner, i clienti, i collaboratori bisbigliavano tra loro appena uscivamo dalla porta, ora può essere amplificato – nel bene e nel male – in rete. E allora meglio esserci e partecipare attivamente alla costruzione della nostra reputazione.
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