Il “quiet quitting” è un fenomeno che nel mondo del lavoro sta irrompendo senza trovare dinanzi a sé barriere o ostacoli che lo possano placare.
Stiamo parlando di una vera e propria “epidemia” dove l’obiettivo è svolgere il proprio stretto necessario, nulla più. Ma cosa induce il dipendente a entrare in questa modalità che possiamo definire “eco”?
Le motivazioni sono molteplici e possiamo inquadrarle secondo due generazioni differenti
La prima generazione è quella dei millennials, conosciuta come genZ, ragazzi che per le prime esperienze lavorative si trovano immersi in ambienti professionali che non giudicano stimolanti e tanto meno appaganti. Questo succede perché il personale risulta, nella maggior parte dei casi, in numero ridotto rispetto al necessario e, a volte, carico di responsabilità che spesso non gli competono, senza nemmeno un corrispettivo ritorno in busta paga.
In questa situazione, il neo-inserito rischia di venir considerato o un onere aggiuntivo da verificare da vicino in ogni sua azione o un potenziale concorrente a minor costo, laddove spesso il valore dell’esperienza non è sufficientemente considerato. E allora, il giovane così come l’esperto al suo fianco, tenderanno a indietreggiare.
La seconda opzione riguarda, invece, coloro che si trovano nella stessa azienda da molti anni e non vedono miglioramenti, né dal punto di vista economico né da quello lavorativo.
Sono tanti, infatti, quei lavoratori che rimangono incastrati in ambienti di lavoro nei quali il numero del personale si riduce e inversamente aumenta il carico di lavoro. Così si introduce il meccanismo di risparmiarsi, come se non ne valesse più la pena e incombe il pensiero sempre più ricorrente di cambiare azienda.
Come, quindi, migliorare il mondo del lavoro e fermare il “quiet quitting?”
Il “vaccino” è ancora in corso d’opera, ma ciò che sicuramente può aiutare i dipendenti è un nuovo rapporto all’interno dell’azienda, un confronto reale che sia determinato dal desiderio di cambiare da entrambe le parti. Non lavorare, infatti, diventa nell’immediato un danno per il datore di lavoro, ma nel medio-lungo periodo rischia di danneggiare la crescita non solo professionale, ma anche umana del singolo lavoratore.
Il lavoro, infatti, nasconde in sé la realizzazione della persona e soprattutto può nascondere e quindi poi svelare nuove specificità del proprio essere. Ma questo richiede un coinvolgimento, un interesse, un lasciarsi attrarre da quel che si fa, anche se le condizioni esterne lo rendono complicato. Siamo noi i primi responsabili di noi stessi, crediamo nel fatto di poter costruire qualcosa per cui essere appagati e soddisfatti e agiamo di conseguenza; non c’è cosa peggiore, infatti, nel lavoro così come nel privato, che “vivacchiare”.